Rivoluzioni

“Il vero momento rivoluzionario di tutta la Terra non è in Cina, non è in Russia: è in America. Mi spiego? Vai a Mosca, vai a Praga, vai a Budapest, e avverti che la rivoluzione è fallita: il socialismo ha messo al potere una classe di dirigenti e l’operaio non è padrone del proprio destino. Vai in Francia, in Italia, e ti accorgi che il comunista europeo è un uomo vuoto. Vieni in America e scopri la sinistra più bella che un marxista, oggi, possa scoprire. Ho conosciuto i giovani dello Sncc [Student Non-violent Coordinating Committee, ndc], sai gli studenti che vanno nel sud a organizzare i negri. Fanno venire in mente i primi cristiani, v’è in loro la stessa assolutezza per cui Cristo diceva al giovane ricco: “Per venire con me devi abbandonar tutto, chi ama il padre e la madre odia me”. Non sono comunisti né anticomunisti, sono mistici della democrazia: la loro rivoluzione consiste nel portare la democrazia alle estreme e quasi folli conseguenze.”

Fallaci intervista Pier Paolo Pasolini | Tempi.it 1966

Che fare?

Mari è considerato la coscienza del design italiano. Ne rappresenta la posizione più estrema. Posizione a volte difficile da accettare nel paradigma contemporaneo. Oggi, in momento di crisi, l’estremismo di Mari guadagna posizione perchè con una “democratizzazione” del gusto e delle possibilità la qualità del progetto ne risente. Come progettisti siamo sempre coinvolti, in maniera complice, con il committente. Un committente che oggi è sempre più ignorante, superficiale, miope, egoista, grezzo. Allora noi diventiamo dei killer mandati per mettere in opera visioni così piccole. Quindi che fare? Mari ci dà un’idea a proposito quando afferma:

“Io sono un soldato che dall’età di diciotto anni combatte contro la merda del mondo.”

Recensione del suo ultimo libro su Domus.
“Sono convinto”, scrive Enzo Mari in apertura della sua autobiografia, 25 modi per piantare un chiodo, “che il progettare corrisponda a una pulsione profonda dell’uomo, come l’istinto di sopravvivenza, la fame, il sesso. Siamo una specie che vuole modificare il suo ambiente”. Più che la successione di eventi che compone la vita di Mari, che ne è forse pretesto anziché scopo, il motore di 25 modi… è il desiderio di articolare questo principio attraverso discussioni teoriche ed esempi concreti: il desiderio, cioè, di illustrare la cinghia di trasmissione che vincola la progettazione alla vita dell’uomo.

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Generazione Y

Lucy fa parte della Generazione Y, la generazione nata nel periodo compreso tra il fine anni ’70 e la metà degli anni ’90. Fa anche parte della cultura yuppie che costituisce una larga parte della Generazione Y (Gen Y).

(nota del traduttore: Per approfondire, leggi a proposito degli yuppie qui)

Mi piace descrivere gli yuppie della Gen Y con un acronimo — Li chiamo “Gen Y protagonists & special Yuppies”, o GYPSY. Un GYPSY è un sottotipo di yuppie, che pensa di essere il protagonista di una storia molto speciale.

Dunque, Lucy sta vivendo la sua vita GYPSY ed è molto rincuorata per il fatto di essere Lucy. L’unico problema al riguardo è il seguente:

Lucy è infelice.

Per comprendere il perchè di ciò, dobbiamo inanzitutto definire e comprendere cosa renda felice o infelice un individuo. Deriva tutto da una semplice formula.

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Salari Europei a confronto

In Europa ci sono Paesi ricchi e Paesi poveri. Ma in realtà la storia è più complicata, le differenze di salario e potere d’acquisto accentuate anche all’interno di ciascuna nazione. Nord e Sud sono l’esempio più evidente: mentre una parte d’Italia ha un reddito in linea con gli standard europei, l’altra è più povera, molto più povera. Ma quanto, esattamente?

Secondo i dati Eurostat, aggiornati al 2010 e aggiustati per indicare pari potere di acquisto, in Italia a passarsela peggio sono i campani. Con un reddito medio annuale di 15.600 euro sono dietro a calabresi (15.800), siciliani (16.200) e pugliesi (16.300). Va un po’ meglio in Basilicata, dove si arriva a 17.200 euro l’anno, oppure per i Sardi che si fermano a 19.000.

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Inversioni

La generazione prima della mia, quella post bellica, del boom, delle contestazioni finite piu’ o meno in fumo, emigro’ dalle campagne alle citta’. Forse perche’ il mondo accadeva qui in quei luoghi, perche’ le nuove idee arrivavano li’ e molto spesso non uscivano dalle mura cittadine. Cosi’ in questa corsa verso il nuovo, verso il futuro verso un lavoro migliore si spostaro no quasi tutti verso i medi e grandi cenri urbani. Fenomeno in pieno accadiemento nel mando in via di sviluppo.
Pero’ per quelli della mia eta’ che sono nati nelle citta’, che ci sono cresciuti senza avere molti spazi verdi, chenon sanno i nomi degli alberi, che pero’ sono stati in musei e biblioteche, la citta’ non e’ piu’ un punto di arrivo. Ora che un certo modello di societa’ nell’occidente sembra non essere poi cosi’ convincente piu’ e piu’ persone ritornano nelle camoagne.
Perche’ comunque si puo’ essere connessi alGlobo, perche’ magari si hanno figli e si preferirebbe farli crescere in centri abitativi piu’piccoli. Forse anche perche’ noi che la citta’ l’abbiamo vista sin da piccoli, ci siamo accorti che in fondo ha molte mancanze.

Designer’s inquiry

As designers, how do we relate to the structural precariousness of everyday life, to the cuts to culture and welfare, to the lack of social protection and support as workers? How are we reacting to an educational system that forms “industry-ready” creative subjects? How aware are we, as producers of knowledge and languages, of being a fundamental component of the current economic system?

The investigation Designers’ Inquiry takes as a starting point both questions like these and a series of difficulties in contemporary society that brought us to desire a radical change for our lives. The inquiry can thus be seen as an attempt to address these questions and desires: on the one hand, by capturing the conditions of life and work of designers in Italy, and, on the other hand, by initiating a dialogue as well as a critical reflection on the profession itself.

Influenced by the model of co-research, the 78 questions elaborated in theDesigners’ Inquiry tried to involve the participants in a reflection on their own condition, thereby opening the path for possible cooperations and common struggles. A first “collective step” had already been taken in the stages following the collection of the responses: the evaluation of the data and their conceptual, visual and verbal elaboration have been developed publicly through workshops at which a diversity of designers interested in the project participated. The long-term objective of Designers’ Inquiry is to continue to produce tools of analysis, but above all tools for shared actions that aim at intervening in the present state of reality.

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la verita in architettura, note

«Per questo mercato (ndr immobiliare) non funziona più il modello del quartiere, del quartiere-villaggio del dopoguerra con i suoi rimandi comunitari e rurali. A ben vedere, “quartiere” è una nozione urbana, vuol dire un quarto di città, deriva dalla città romana. Facciamo un cattivo uso di questa parola quando interpretiamo il quartiere come un villaggio e non come una parte di città. Inoltre, nell’abbandonare quell’idea postbellica del villaggio, con i suoi pregi solidaristici, siamo giunti alla sua versione più impoverita negli interventi attuali, dove un gruppo di condomini nel verde e chiusi da una recinzione prende ancora il nome di quartiere. Lo considero un modello scadente perché indicativo di preoccupazioni che gli abitanti normali secondo me non dovrebbero avere. Non dovrebbero ad esempio avere paura della città, non dovrebbero intendere il verde come un elemento per stare distanti l’uno dall’altro, non dovrebbero apprezzare l’isolamento della casa da tutto il resto. Questi nuovi operatori della trasformazione urbana dovrebbero impegnarsi a realizzare naturalmente quello che gli italiani in realtà conoscono alla perfezione, perché gli italiani sanno benissimo come si vive nelle città, non sanno piuttosto come si vive nella periferia.

[…]
Sappiamo benissimo invece vivere la città. E non mi risulta, nonostante, la diffusione dei fenomeni di sprawl in Lombardia, che ci sia un fuggi-fuggi generale dalle città: casomai il limite è nella maniera nostalgica di intendere la città come centro storico. Quando la città diventa centro storico vuol dire che non abbiamo più fiducia di poterla continuare tranquillamente. E cosa vuol dire farla? Vuol dire fare gli isolati, fare le strade, vuol dire fare gli edifici ‘ibridi’, con un piano terra significativo, con degli usi diversificati, che magari hanno delle attività lavorative nei primi tre piani. Così come sempre stato per le nostre città e come avviene anche in certi Paesi avanzati, dove ci sono gli home-office per le persone che lavorano a casa, o ancora nel centro di Milano dove gli uffici occupano lo spazio di alcune abitazioni. Credo che sia arrivato il momento di superare il modello del condominio monofunzionale, con il piano terra inutilizzato e il verde intorno». (pp. 32-33)
Contro lo sprawl, ma anche contro la media densità della città, che cresce per gruppi di “condomini recintati”, e contro i centri storici trasformati in “parchi a tema”